Napoli, Sarri: “Vorrei conoscere Maradona. Scudetto? Non lo dico”

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Maurizio Sarri racconta la sua carriera da tecnico e rivela: “Sono emozionato per la dichiarazione di Maradona, il mio obiettivo è conoscerlo. Lo Scudetto? Resta impronunciabile“.

A suon di risultati e bel gioco ha fatto ricredere tutti gli scettici che immaginavano un suo esonero in tempi rapidi dalla panchina del Napoli. Maurizio Sarri, dopo aver fatto sognare una piccola come l’Empoli sta ottenendo grosse soddisfazioni anche all’ombra del Vesuvio, tanto che lo stesso Diego Armando Maradona, che frettolosamente a inizio anno lo aveva bollato come ‘tecnico non da Napoli’ ha poi voluto scusarsi con lui.

“Per me, come per tutte le persone che amano il calcio, Maradona è un idolo, un’idea del calcio. La dichiarazione che ha fatto mi ha emozionato. Ora il mio prossimo obiettivo è conoscerlo. Sarebbe un onore, per me”.

Sarri si è raccontato in un’intervista esclusiva al ‘Corriere dello Sport’:

“Mio padre era un operaio gruista, lavorava nella ditta che costruiva l’Italsider di Bagnoli. Per questo io sono nato, come un presagio, a Napoli, e qui ho vissuto fino ai tre anni. Mamma lavorava nella camiceria, come molte donne in quei tempi, nella mia Toscana. Tornammo a Figline nel 1964. Era una comunità unita e solidale. Ci conoscevamo tutti, ci aiutavamo tutti. Sa quella storia che oggi sembra una leggenda, il lasciare le chiavi attaccate alla porta? A Figline era normale”.

“Giocavo per ore in strada al pallone con gli amici. E poi si andava all’oratorio, che per intere generazioni di ragazzi è stato, ovunque, la vera scuola calcio, il centro federale che non esisteva. A Figline c’era Don Aldo. Era un grande. Lui arbitrava, ma se c’era bisogno che giocasse si toglieva in un battibaleno la tunica e sotto aveva già la tuta. Era il cugino di Mauro Bellugi e questo aumentava la sua autorità in materia calcistica. E dove ha giocato Bellugi? Nel Napoli. Tutto torna… Era proprio destino che io finissi qui…”.

“Mio padre è stato corridore professionista con la Frejus. Anche io ero appassionato della bicicletta. Ma a 14 anni ho cominciato a giocare al calcio, nella squadra del mio paese, il Figline. Ho iniziato da difensore esterno, poi sono stato schierato come centrale. Ma, diciamoci la verità, non sfondavo, non ero un campione. Il massimo torneo in cui ho giocato era la serie D. Intanto mi cercavano le banche, lì ero davvero capace. Così cominciai a lavorare per portare un po’ di soldi a casa. In quel periodo lavoravo, studiavo, giocavo. Poi mi sono arreso, era troppo, tutto insieme”.

“Gli ultimi anni della mia carriera da calciatore, niente di che, li ho fatti a Stia, in Prima categoria. Durante il campionato mi chiesero anche di allenare, avevo trentuno anni e una certa predisposizione a organizzare e forse a dirigere. Pensi che una volta, con gli allievi del Figline, dovevamo giocare, la domenica mattina, una partita importante. Il sabato però l’ allenatore litigò violentemente col presidente e si dimise. Per solidarietà con lui se ne andarono anche i dirigenti accompagnatori e tutti gli adulti. Per fortuna restò l’autista del pullman. Insomma andammo al campo degli avversari e io feci tutto, decisi la formazione, scrissi la nota e dissi all’arbitro che l’allenatore purtroppo non poteva esserci perché si era sentito male, una cosa assai seria, ed era restato in pullman. Faccio notare che avevo quindici anni e pure che poi la vincemmo quella partita…”.

“Allo Stia avevo detto che avrei tenuto la squadra qualche settimana ma poi mi appassionai. Mi piaceva molto più allenare che giocare. Passai al Monte San Savino. E vincemmo tutti i campionati, passando dall’eccellenza alla serie C. Ma io ero diviso. Lavoravo in banca, mi occupavo dei cambi ed ero bravo. Manovravo decine di milioni e difficilmente sbagliavo operazioni. Avrei avuto una bella carriera, credo. E intanto avevo un buon stipendio. Ma allenare era infinitamente più bello. E poi con l’arrivo dell’Euro c’era poco da giocare con i cambi. Insomma parlai con la famiglia e decisi. O Il calcio o la banca, mi dissi. E scelsi, non senza sofferenza. Passai alla Sangiovannese, sempre in zona, nell’aretino”.

“Qui mi capitò di incrociare Allegri ci fu una partita tra Sangiovannese e Aglianese, la squadra che Max allenava. Finì 0-0, senza neanche un tiro in porta. Una noia mortale. Alla fine uno degli spettatori, che era anche un mio amico, gridò ‘Se siete allenatori voi due… Con la Sangiovannese avevamo vinto la C2 ed eravamo terzi in C1. Poi morì il presidente e la società andò in crisi. Così andai a Pescara‘”.

E dopo gli abruzzesi alla guida di Arezzo, Avellino, Perugia, Grosseto, Alessandria, Sorrento, Empoli e poi finalmente Napoli, dove è riuscito ad affermare le sue idee calcistiche:

“Allenare qui è bello e duro. Le sensazioni che ti può dare la tifoseria sono uniche, un calore spettacolare. Ma è un ambiente umorale, come è sempre stata questa città fatta di passioni e delusioni. O tutto è positivo o tutto è negativo. Io cerco di tenere il filo di una atmosfera in cui ogni tanto bisogna anche estraniarsi”.

Quella in corso sembra annunciarsi come una stagione ricca di soddisfazioni, ma Sarri preferisce non sbilanciarsi:

“La parola Scudetto per me resta impronunciabile. Abbiamo iniziato un percorso. Ricordiamo che veniamo da un 5° posto e teniamo i piedi per terra. Per volare c’è sempre tempo. È un campionato aperto, senza dominatori. Ci sono diverse squadre che competono a pari livello. Posso dirle che io sono rimasto molto impressionato dalla Fiorentina”.

Questa la sua filosofia calcistica:

“Il calcio, come tutto, richiede analisi, pensiero, riflessione oltre all’esperienza vissuta. Io ho studiato molto. In particolare il lavoro e le innovazioni di Arrigo Sacchi che è stato un vero rivoluzionario del calcio, e per questo mi piaceva. Lui ha cambiato, in Italia, il modo di giocare. Io ho letto molto sulla tecnica e mi capita ancora di passare ore chiuso in una stanza a pensare ad uno schema, a come sfruttare nel modo migliore le palle inattive… Ma è un pensiero in movimento, non fisso. Io ho cambiato, nel senso di far evolvere, il mio modo di pensare calcio rispetto a dieci anni fa: prima ero più rigido, ora so che il bambino c’è in ogni giocatore non va mai spento. Non va mai represso l’aspetto ludico”.

“Cosa significa essere rivoluzionari nel calcio? Andare contro le convenzioni. Immaginare quello che ancora non c’è. Ma poi servono i risultati, ne sono consapevole. In fondo è così sempre, anche per le rivoluzioni vere”.

Mister Sarri ha una grande passione per la letteratura, calcistica e non:

“Studio e consulto libri di calcio, come l’ultimo di Sacchi. Ma poi mi piace la letteratura. Ho fatto un percorso, sono partito da Bukowski, poi sono arrivato a John Fante e ora sto divorando Vargas Llosa, che mi piace molto. Leggo Erri De Luca e Maurizio de Giovanni, che mi aiuta a capire ancora meglio Napoli”.

Il discorso si sposta sui singoli, e qui Sarri cita 3 giocatori avuti nella sua carriera:

Baiano aveva una velocità di pensiero impressionante. Reina è una persona speciale, davvero molto intelligente. In campo e fuori. Con Goretti, che giocava nel Perugia, si poteva parlare di tutto, anche di temi lontani dal calcio”.

Quanto a Higuain, Sarri ha ribadito:

“Si diverte. Io lo stimolo a divertirsi. È un fuoriclasse ed è potenzialmente il giocatore più forte che io abbia mai allenato”. Il tecnico azzurro fa anche due nomi fra i giovani italiani: “Il più forte per me è Rugani, ha una capacità di applicazione straordinaria. Io lo feci esordire a 18 anni. Sarà un giocatore molto importante per il calcio italiano del futuro. Fra i ragazzi del Napoli Luperto è un ragazzo da tenere d’occhio”.

 

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